Te la ricordi la storia di quella povera ragazza, Emanuela Orlandi? E' una storia che come le funzioni trigonometriche ogni volta che sembra finita, allora ricompare con andamento ciclico, potremmo dire come un fiume carsico. Tutti sanno e nessuno sa, come le storie di corna umane, ma qui ci sta in mezzo un omicidio, scomparsa di cadavere, movente finora sconosciuto salvo che gira gira si va sempre a cadere in braccio alla famosa e potente banda della Magliana.
Eppure dopo tanti anni tutto dovrebbe essere ormai chiaro, tutto è avvenuto a Roma o meglio ancora dentro le mura vaticane dove noi signoreggiamo indisturbati da venti secoli.
Sì, è vero, ma sempre che non sia un arcana imperii che nessuno ha interesse a rendere chiaro, e in questo non cìè ambiente più sicuro e omertoso che il Vaticano. Storia, cronaca, fatti e persone: tutti docunt.
Mi sa che hai ragione, se solo vado ai crimini commessi sotto il manto dell IOR o di Calvi o del Marcincus, la morte di Luciani, i maggiordomi onniscenti e le guardie svizzere che si ammazzano morbosamente, le truffe interna corporis alla Cippico, Giuffrè, Verzè ma soprattutto i tanti cadaveri sconosciuti che si agitano ne grotte di quel colle romano extraterritoriale dove di Italia c'è solo la lingua.
Che ce l'hai col Canton Ticino?
No, no, per carità, semmai Il nome della Rosa che rende icasticamente l'ambientino. Eppure nonostante tutto il clamore poliziesco da trent'anni sulla Orlandi, la stampa giorni fa ti metteva in bocca che "Ora sulla Orlandi bisogna chiarire TUTTO!" Ma allora, ci si chiede, finora che hanno fatto?
Non essere ingenuo: il conformismo vuole che se incontri qualcuno che conosci devi dire Buongiorno anche se piove. E di questo i preti ci campano.
“Cogito ergo sum”, e ancor più “Dubito ergo sum”, oggi come allora, pretende
di inseguire e solennizzare i punti di forza del vivere dell’Uomo sociale: la libertà
della mente, l’autonomia della coscienza, l’etica come sentimento empatico,
la consapevole responsabilità individuale, il diritto alla ricerca della
felicità, il tutto visto attraverso il prisma del constatabile negativo influsso
delle religioni, delle loro pseudo-certezze e delle loro suggestioni. E ribadiamo
“le religioni”, al plurale dei plurali come di fatto è.
Se il ragionare comportasse sempre l’uso strumentale del Dubbio come mezzo
di avvicinamento dialettico e euristico alla soluzione di qualsiasi problema,
avremmo : scientifico = “provando e riprovando”; etico = “in dubio pro reo”; filosofico
= “dubito ergo sum”; logico = “tertium non datur”; cosmologico “eppur
si muove”; esistenziale “essere o non essere”; umanistico “chi più sa più dubita”;
tecnologico “trial and error”, classico “panta rei”, e il seguace di qualsiasi religione
si chiederebbe perché mai ce ne sono poi tante e perché, guarda caso, lui
ne segue una sola, che, tra l’altro, lui non ha mai scelto. Perciò lo chiamano “fedele”
o “seguace” o “credente”, ma anche “eretico” (con tutte le conseguenze)
se gli capitasse di chiedersi qualche perché, cioè se accettasse di coltivare in sé,
tra tante certezze eteronome, anche un Dubbio autonomo, una sua pars destruens
che lo costringesse a pensare, ragionare, scegliere, decidere, dissentire.
Ma non succede, tanto che ogni credente, rispetto ai comportamenti e
dettami imposti dal suo condizionamento religioso, si trova infinite volte in
quella situazione mentale che la scuola di Palo Alto chiamò del “doppio legame”,
ma non lo avverte, è dianoeticamente amorfo, effetto di quel pensiero
“magico” con tutti i suoi miracoli col quale si supera qualsiasi difficoltà, contraddizione
o paradosso, mentre intanto lui, il “fedele,” parla e pensa con le
parole e i pensieri che altri gli hanno infuso. Un replicante? Senza mancargli
di rispetto, sì, sta nei fatti.
E questo Dubbio, l’anti-dogma, motore della mente umana, condizione della
ragione, dignità della coscienza e cardine di quel pensiero illuminista che ha
reificato il mondo moderno e contemporaneo, vogliamo invocarlo come
grande medicina della vita dell’Uomo che pensa, che si interrelaziona, che
crea, che indaga, che giudica. Che, insomma, deve vivere in una realtà sensibile.